Elettroshock

Fra i tanti «trattamenti» che sono stati messi a punto, soprattutto nel corso del XX secolo, per la cura delle malattie mentali, l'elettroshock (detto anche terapia elettroconvulsivante, e da qui in avanti indicato con l'acronimo Tee) è senza dubbio quello che ha suscitato le più intense controversie, tuttora molto vive. L'obiettivo di questo contributo è di fornire i principali elementi conoscitivi necessari per una comprensione chiara delle problematiche che la Tee solleva in psichiatria, cercando di evitare sia le acritiche (e infondate) mitizzazioni di alcuni, sia le demonizzazioni semplificatone di altri, ma aderendo a un metodo (quello della evidence-based medicine) che ha al suo centro la valutazione critica delle evidenze scientifiche.

La Tee è nata in Italia negli anni '30 del '900, inventata da due psichiatri, U. Cerletti e L. Bini, che operavano presso la Clinica delle malattie nervose e mentali dell'Università di Roma. La sua invenzione è stata l'ultima tappa di una lunga storia: infatti, tra fine '800 e inizi '900 erano state messe a punto e largamente impiegate, negli stabilimenti manicomiali europei e nordamericani, numerose «terapie di shock» (shock cardiazolico, shock acetilcolinico, coma insulinico, piretoterapia, ecc.); lo sviluppo e il conseguente utilizzo di tali trattamenti derivavano quasi sempre da assunti fantasiosi quanto infondati. Nel caso della Tee, si sosteneva erroneamente che la schizofrenia si riscontrasse solo raramente in persone affette da epilessia: di qui l'ipotesi di un presunto antagonismo tra il disturbo convulsivo e la schizofrenia stessa, e quindi l'idea di un potenziale impiego terapeutico delle convulsioni prodotte artificialmente. Una volta messa a punto la tecnica, il suo impiego si diffuse rapidamente, e un numero crescente di pazienti, sofferenti di disturbi mentali tra loro molto diversi (schizofrenia, depressione, psicosi maniaco-depressiva, ritardo mentale, vari disturbi del comportamento, ecc.), cominciò a essere trattata con la Tee.

Ben presto si creò una situazione che apri la strada a gravi abusi: infatti, mentre ci si accorse rapidamente che alcuni casi di depressione grave (disturbo per il quale sino all'inizio degli anni '60 non esistevano trattamenti farmacologici o psicologici di provata efficacia) rispondevano bene alla Tee, la sua assoluta inefficacia in pazienti affetti da schizofrenia (e dalla congerie di altri disturbi in cui veniva impiegata), piuttosto che avviare una attenta riflessione sull'impiego della tecnica indusse a tentarne utilizzi sempre più estremi, nella convinzione che ciò. avrebbe accresciuto le probabilità di «guarigione» (va parimenti ricordato che i primi farmaci di dimostrata efficacia per il trattamento della schizofrenia e dei disturbi psicotici sono stati introdotti circa vent'anni più tardi, nel 1956). In altre parole, si pensava che non fosse la tecnica a essere inefficace, ma che essa, nei disturbi mentali gravi, dovesse essere impiegata a «dosaggio» molto elevato. In questo modo si arrivò addirittura alla cosiddetta «terapia dell'annichilimento», consistente in applicazioni quotidiane, ripetute sino a provocare un vero annullamento della personalità del paziente, come scriveva nel 1947 Bini, fautore di questa particolare applicazione della tecnica.

Poiché la Tee veniva praticata allora (e lo è stata per molti anni, almeno sino alla fine degli anni '50 e in molti casi anche più tardi) senza anestesia generale, procurando una vera e propria crisi epilettica tonico-clonica generalizzata con perdita della coscienza, la sua somministrazione era vissuta, sia dai pazienti sia dai familiari e dall'opinione pubblica, come un evento drammatico e violento (occorre ricordare che le fratture vertebrali, dovute proprio alle violente convulsioni, non erano rare): ciò ha fondatamente alimentato l'idea che la Tee rappresentasse, in quelle epoche storiche, anche uno strumento «punitivo», e che comunque il suo impiego fosse strettamente intrecciato a modalità violente di intervento, rivelatesi sempre più inaccettabili.

Da questo punto di vista, tuttavia, la situazione è molto cambiata: attualmente la Tee viene somministrata in anestesia generale, e - grazie ad adeguati interventi farmacologici - non si assiste ad alcuna crisi convulsiva, ma il passaggio di corrente elettrica, realizzato attraverso l'applicazione di elettrodi (su uno o entrambi gli emisferi cerebrali: Tee "uni- o bilaterale) sulla teca cranica, viene monitorato con appositi apparecchi. La Tee ha quindi perduto del tutto il carattere violento e invasivo del passato, e appare oggi un presidio terapeutico con un suo pur limitatissimo campo di applicazione. Non vi sono in Italia dati che consentano di sapere quante persone sono sottoposte ogni anno a tale trattamento; in Inghilterra è stato calcolato che circa 11 000 persone ogni anno sono trattate con la Tee, ma la cifra corrispondente nel nostro paese è sicuramente molto più bassa; dati recenti ottenuti nel contesto di un progetto di ricerca nazionale sulle caratteristiche del ricovero psichiatrico indicano che la Tee è praticata solo nell'i,5% delle strutture pubbliche di ricovero psichiatrico, e nel 17% delle 52 case di cura psichiatriche e presenti in 19 regioni su 21.

La principale indicazione all'impiego della Tee è senza dubbio rappresentata dal trattamento della depressione grave: ma quali sono le evidenze che ne supportano l'efficacia? Come per qualsiasi altro trattamento impiegato in medicina (e in psichiatria), gli studi clinici controllati (Scc) randomizzati rappresentano la fonte delle evidenze di efficacia più rigorose e attendibili; è infatti ben noto che fattori non specifici, associati inevitabilmente a qualsivoglia trattamento, quali la remissione spontanea (da secoli nota come vis sanatrix naturae), la regressione verso la media (ossia le spontanee fluttuazioni di qualsiasi condizione morbosa ad andamento cronico, con l'alternarsi di miglioramenti e riesacerbazioni) e l'effetto placebo rivestono un'importanza cruciale nel determinare l'esito complessivo di un trattamento. La rilevanza della valutazione dell'effetto placebo diviene ancor più stringente nel caso di una tecnica di trattamento come la Tee, intrisa di profondi significati simbolici, di mitizzazioni collusive e di aspettative panaceiche coinvolgenti il curante, il paziente e la sua famiglia. Va subito detto che il tasso medio di risposte al placebo, nei trial psicofarmacologici relativi alla depressione maggiore, si aggira intorno al 30%.

Nel caso della Tee sono disponibili sei studi «controllati contro placebo», in cui la Tee «vera» è stata messa a confronto con un trattamento elettroconvulsivo «simulato», ottenuto praticando solo un'anestesia generale, senza alcun passaggio di corrente elettrica; in ciascuno di questi studi gli psichiatri che effettuavano la valutazione clinica dei pazienti non sapevano quali di essi erano stati trattati con Tee vera o invece con Tee simulata. Va aggiunto che, sia in queste ricerche che nella pratica clinica, un ciclo di applicazioni della Tee oscilla tra 6 e 12 trattamenti. In una recente, accurata revisione critica di questi trial, comparanti la Tee vera e quella simulata, un gruppo di ricercatori inglesi è giunto alla conclusione che i pazienti depressi trattati con Tee vera mostrano un miglioramento significativamente maggiore rispetto a quelli trattati con Tee simulata, e che la Tee è efficace nel trattamento a breve termine della depressione (UK ECT Review Group, 2003). Inoltre il gruppo di H. A. Sackeim, considerato oggi il più autorevole a livello internazionale in questo settore, ha realizzato due Scc, in cui sono state messe a confronto quattro modalità di esecuzione della Tee: unilaterale (UL) o bilaterale (BL), e a basso o ad alto dosaggio di stimolo elettrico, vale a dire subito al di sopra della soglia convulsivante o superiore di 2,5 volte a tale soglia. La Tec-UL a basso dosaggio si è rivelata del tutto sprovvista di efficacia terapeutica, e la sua azione antidepressiva appariva addirittura inferiore rispetto a quella rilevata negli studi con la Tee simulata (31% di pazienti migliorati immediatamente dopo l'effettuazione del trattamento e 23% a una settimana), e può quindi essere considerata come un placebo «spurio» (in quanto, a differenza della Tee simulata, vi è stato comunque un passaggio di corrente elettrica, seppur inefficace); al contrario, il 70 e il 61% nel gruppo trattato con Tee vera (UL ad alto dosaggio, o BL a basso o ad alto dosaggio) ha presentato una remissione clinicamente significativa; la differenza fra i tassi di risposta era statisticamente significativa. Cercando di riassumere i risultati conseguiti dagli Scc di confronto tra la Tee vera e simulata (o inattiva), e nel contempo di sintetizzare le autorevoli opinioni degli autori attivi in quest'area, si possono proporre le seguenti conclusioni: a) negli Scc condotti sino ad oggi, la Tee vera è apparsa più efficace della Tee simulata (o inattiva, rappresentata dalla Tec-UL a basso dosaggio) nell'ottenere una remissione della sintomatologia depressiva; b) una proporzione comunque non piccola dei pazienti sottoposti a Tee simulata risponde al trattamento, e ciò è soprattutto vero nel caso di pazienti con diagnosi di depressione senza sintomi psicotici e senza grave ritardo psicomotorio; c) l'esistenza di un rapporto dose-risposta (relativa in questo caso all'intensità dello stimolo elettrico: ossia maggiore è la quantità di corrente, maggiore è la proporzione di pazienti che presentano una remissione) fornisce una conferma dell'efficacia della Tee in alcuni tipi di depressione; d) i tassi di risposta alla Tec-BL talvolta menzionati in letteratura (80-90% di risposte positive in pazienti con depressione grave) non sono affatto riscontrabili negli studi controllati più importanti; solitamente le percentuali medie di risposta sono comprese tra il 60 e il 70% dei pazienti trattati; e) l'ipotesi secondo cui la Tee determina un più rapido miglioramento (rispetto ai farmaci) è largamente impressionistica: negli ultimi decenni solo uno studio ha affrontato questo problema. Pertanto la tesi di alcuni autori, secondo cui la Tee avrebbe un'indicazione elettiva nelle condizioni cliniche in cui è richiesta una rapida e incisiva remissione sin-tomatologica, è da considerarsi come non provata. Inoltre, nessuno studio ha mai adeguatamente comparato la qualità della remissione ottenuta con la Tee rispetto a quella ottenuta con i farmaci antidepressivi. Va preso in esame, inoltre, l'impatto di questo trattamento sul decorso stesso della malattia: numerose ricerche (condotte sia negli anni precedenti che in quelli successivi all'introduzione dei farmaci antidepressivi) hanno messo in luce che, nei pazienti con diagnosi di depressione, la somministrazione di Tee sembra essere associata a tassi più elevati di ricaduta e di riospedalizzazione in confronto a pazienti trattati con farmaci antidepressivi, o addirittura a effetti negativi in termini di decorso del disturbo. In realtà, in assenza di uno specifico trattamento di mantenimento, pressoché tutti i pazienti depressi trattati con la Tee presentano una ricaduta entro sei mesi. Tuttavia, di fronte all'ampia gamma di trattamenti farmacologici e psicologici di dimostrata efficacia per il trattamento della depressione, anche grave e a elevato rischio suicidiario, l'eventuale proposta di impiegare la Tee come opzione di prima scelta sarebbe considerata a ragione gravemente inappropriata. Ma è ben dimostrato che una proporzione minoritaria, ma non per questo irrilevante, di pazienti (proporzione di cui non si conosce bene l'ampiezza) non risponde in alcun modo al trattamento farmacologico, anche se attuato nella maniera più rigorosa, e lo stesso dicasi del trattamento psicoterapico, laddove esso sia attuabile. Non si conoscono ancora le ragioni di questa marcata resistenza biologica (e psicologica) in alcuni pazienti sofferenti di depressione grave.

La Tee trova quindi oggi la sua pressoché unica indicazione all'impiego nei (rari) casi di depressione grave farmacoresistente. Tuttavia, nel sottogruppo clinicamente selezionato di pazienti depressi cosiddetti non responders (ossia che non presentano miglioramenti del quadro clinico anche se trattati con vari tipi di farmaci antidepressivi ad alto dosaggio) la percentuale di risposta alla Tee non supera il 50% (Sackeim et al., 1990); peraltro la possibilità di ottenere una risposta in un paziente su due, in casi di depressione grave con accertata farmacoresi-stenza, e in cui sia già stato provato di tutto, ha un'importanza da non sottovalutare. In passato era stato anche sostenuto che l'impiego della Tee consentisse di ridurre il tasso di suicidi, notoriamente correlato alla presenza di depressione grave; ma tale asserzione è invece largamente indimostrata (UK ECT Review Group, 2003). Per quanto concerne il trattamento di quadri clinici differenti dalla depressione, gli Scc, condotti con accettabile rigore metodologico, che testimonino con sufficiente attendibilità l'efficacia della Tee sono limitatissimi o gravemente deficitari da un punto di vista metodologico, e non consentono affatto di trarre conclusioni favorevoli a questo trattamento. In particolare, nel caso della schizofrenia esistono numerose ricerche che dimostrano l'assoluta inefficacia di tale tecnica, a breve come a lungo termine. L'unico quadro clinico che resta da considerare è la catatonia, quadro clinico oggi rarissimo nei paesi industrializzati, ma molto grave e potenzialmente in grado di condurre a morte; un recente saggio su questo tema ha concluso che la Tee va riservata solo a casi di catatonia che non abbiano risposto, in breve tempo, a un trattamento farmacologico specifico. Anche le più recenti linee guida Nice (National Institute for Clinical Excellence) prodotte in Gran Bretagna restringono l'impiego della Tee alla depressione grave e alla catatonia. Per quanto riguarda gli effetti collaterali e avversi, nella letteratura scientifica è possibile rintracciare un'ampia mole di ricerche. Valutazioni accurate, condotte negli ultimi anni anche con l'impiego di tecniche di brain imaging, farebbero escludere che la Tee provochi un danno cerebrale strutturale o distruzione neuronale (Devanand et al., 1994; Reisner, 2003). Per quanto riguarda la mortalità associata alla Tee, il rischio è considerato pari a quello associato all'induzione di una breve anestesia generale impiegata in vari tipi di procedure mediche. Circa gli effetti collaterali e avversi associati sul piano cognitivo al trattamento con Tee, è unanimemente riconosciuto che, a seguito del trattamento (in particolare quello bilaterale), si produce un'amnesia sia ante-rograda (ossia una difficoltà o impossibilità a fissare del nuovo materiale mnesico) che retrograda (rappresentata dalla incapacità a rievocare materiale mnesico precedente alla somministrazione della Tee, e relativa in particolare a eventi occorsi negli ultimi uno o due anni), di profondità ed estensione variabili. La maggior parte degli autori ritiene tuttavia che i disturbi mnesici scompaiano dopo circa sei mesi dal termine del trattamento. Una recente analisi delle sette ricerche che hanno analizzato le opinioni soggettive dirette di pazienti sottoposti alla Tee ha però messo in luce che circa un terzo di costoro lamentava danni mnesici soggettivi permanenti (Rose et al., 2003). Inoltre gli aspetti psicologici, ivi incluse le potenziali conseguenze psicologiche della somministrazione della Tee, sono stati complessivamente poco studiati. Nelle ricerche citate era stato chiesto ad alcuni gruppi di pazienti sottoposti a questo trattamento se l'avessero trovato utile e se fossero disposti a riceverne un nuovo ciclo; le risposte ottenute nei vari studi variavano molto a seconda delle modalità di rilevazione delle opinioni dei pazienti, ed è quindi difficile operarne una sintesi, come notano gli stessi autori dell'indagine comparativa.

Da un punto di vista teorico, l'importanza sul piano concettuale nonché operativo di un'adeguata spiegazione del meccanismo d'azione della Tee (come peraltro di qualsiasi trattamento) sembra ovvia. Nel caso della Tee, nel corso dei suoi 65 anni di storia, sono state avanzate più di cento ipotesi teoriche esplicative del suo meccanismo d'azione (Sackeim, 1994). E’ interessante notare che anche di recente sono sorti modelli di spiegazione del tutto fantasiosi: ad esempio uno psichiatra nordamericano che ha dedicato la sua vita allo studio e alla pratica della Tee, M. Fink (1990), ha ipotizzato che essa indurrebbe la produzione di un peptide ipotalamico, da lui definito «anti-depressina», che a sua volta determinerebbe la remissione del quadro depressivo: purtroppo dell'esistenza di tale neuropeptide non vi è alcuna traccia, sia essa clinica o sperimentale. Si è quindi tuttora privi di una precisa comprensione del meccanismo d'azione della Tee. Occorre tuttavia rimarcare un dato: la convinzione, radicata per decenni, secondo cui l'induzione di una convulsione generalizzata rappresentasse la condizione necessaria e sufficiente per l'effetto antidepressivo della Tee non è confermata (Sackeim, 1994). E infatti possibile indurre convulsioni generalizzate che tuttavia non hanno alcun effetto di tipo antidepressivo (ad es. con la Tec-UL a basso dosaggio); la convulsione generalizzata rappresenta quindi una condizione necessaria, ma non sufficiente per l'efficacia terapeutica del metodo, e altri eventi bioelettrici, neurochimici e metabolici, tuttora poco chiariti, sono fondamentali per ottenere la risposta clinica desiderata.

Nel complesso non disponiamo ancora di un modello fisiopatologico che spieghi perché la Tee sia efficace in limitate condizioni cliniche, e in particolare quali siano i percorsi (pathways) neurochimici e ormonali che possono indurre specifiche sequenze di eventi tra loro correlati (e quasi certamente geneticamente determinati): vulnerabilità a episodi di depressione grave, resistenza al trattamento farmacologico antidepressivo e risposta (o non risposta) alla Tee. Restano ora da discutere brevemente alcune delicate problematiche di tipo etico e deontologico sollevate dalla Tee. In Italia questa terapia è stata oggetto di una deliberazione ufficiale del Comitato nazionale di bioetica (1995), che ha concluso come «non vi siano motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate dalla letteratura scientifica». Tuttavia lo stesso documento riconosce la peculiarità delle problematiche determinate dalla Tee e invita a un uso della terapia «ispirato alla prudenza e a un'attenta considerazione caso per caso delle indicazioni di natura medica e delle possibilità di alternative valide». Particolare attenzione dovrebbe essere posta alle procedure di consenso informato. Proprio per la delicatezza del tema, nel 1999 il ministero della Salute ha emanato precise direttive per disciplinare l'impiego della Tee; purtroppo, esse sono rimaste sino a oggi largamente inapplicate.

Per concludere, in un volume apparso circa trent'anni or sono e che ebbe una larga diffusione, G. Jervis (1975) scriveva che la logica delle terapie di shock è ancora sostanzialmente quella di dare un calcio alla televisione di casa quando essa non funziona bene, o quando trasmette programmi che non ci piacciono. Tuttavia, lo stesso autore riconosceva che la Tee può essere, in condizioni molto particolari, «veramente terapeutica». Sebbene la storia di questo trattamento, dei suoi miti e dei suoi abusi (ma si dovrebbe parlare degli abusi della psichiatria tutta, piuttosto che della sola Tee) non debba essere dimenticata, occorre uscire da contrapposizioni paralizzanti che hanno per molti anni permeato questo intero ambito disciplinare, e incorporare, nella pratica clinica quotidiana, metodologie e attitudini di rigorosa valutazione critica dell'efficacia dei trattamenti, qualsiasi essi siano, biologici, psicologici o psicosociali. Quando ciò accadrà - in un futuro forse non vicinissimo -riconosceremo diritto di cittadinanza a tutto ciò che, nel rispetto della libertà di scelta e dei diritti di qualsiasi cittadino, riesce a ridurre o sconfiggere la sofferenza mentale.

GIOVANNI DE GIROLAMO